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Quale moto è più adatta alle donne

(Storia di una Donzella in cerca di una cavalcatura seria)

Mi vedevo: ero lì che la prendevo larga, ci giravo intorno, mi mettevo obliqua, come quella vela che non voglia prender vento e drappeggia lasca e inutile.

Mi vedevo galleggiare sull’idea, crogiolandomi nel compiacimento del dubbio. Come se desiderar di desiderare fosse intimamente più gustoso e rassicurante che affrontare la paura di aver paura.

Poi ho iniziato a riflettere.

E a negoziare.

Ho smontato tutti gli apparati giustificatori che mi separavano non già dalla possibilità di “desiderare grosso”, ma dalla accettazione che niente è mai abbastanza, se fatto per se stessi.

E ho capito che, solo allora, la parallasse che regna sovrana tra volere e ottenere si annulla e ci vediamo realmente per quello che siamo: meritevoli e fieri dei nostri giocattoli, non importa quanto grandi.

Oggi sono due anni che possiedo una moto che adoro e dalla quale non sono più scesa; ma ora mi siedo un attimo, perché prima di separarmene e procedere nella crescita motociclistica, voglio cercare la mia traccia a terra per capire in che modo ho percorso la -breve- strada fin qui.

Grrrrrl

L’inizio è chiaro. Volevo la moto e ho fatto due guerre: una per averla, una per godermela.

Per la scelta fui consigliata da un uomo, nell’ovvia misura del giusto: dovevo volere una moto intorno ai 600 cc, non più cattiva di una settantina di cavalli. Serviva bassa di sella e non particolarmente pesante, ritenendo che 10-20 kg facessero la differenza tra tenerla o non tenerla in piedi.

Quando l’inesperienza te la fa contemplare col nodo in gola, sdraiata a terra, senza capire come ci è finita e perché non hai lottato per non lasciarla andare, non lo sai che è quasi ininfluente.

Ho girato poco e abbastanza in fretta, come chi fa le cose di nascosto: con l’ansia e col tempo alle costole. Quando sono entrata in Kawasaki ho capito che avevo trovato l’oggetto delle dimensioni esatte e mi sono fatta incartare una ER-6f ABS, nera, col mollone rosso. Bella da morire.

Lo stesso giorno che me la sono portata a casa, mentre mi preparavo ad affrontare una dura disapprovazione, l’ho buttata a terra all’obelisco della Colombo. I tassisti sghignazzavano.

Allora quella voce che mi abitava dentro, e che tenevo faticosamente in ipossia, ha ripreso fiato e ha iniziato ad urlare:

<te-l’-avevo-detto-te-l’-avevo-detto-te-l’-avevo-detto…>

Da quel giorno fanno due anni, 20.000 km di strada e altrettanti di gallerie psicologiche, che nemmeno i Nani di Moria (un Claudio capirà).

In tutto questo tempo ho voluto dare importanza al tema dell’apprendimento e del percorso formativo, perché fermamente convinta che solo dopo aver consumato gomme e tenuto un profilo umilmente basso, avrei assunto credibilità, meritato l’appellativo di motociclista, guadagnato il diritto di desiderare altre moto e costruito un’opinione per poter sceglierne.

Infatti mi opposi presto all’ “uomo del consiglio”, poiché egli riteneva essere la strada l’unica vera insegnante di guida e stava scegliendo per me in che modo avrei dovuto imparare ad andare in moto.

Dopo un anno di sguardo basso, cenere sul capo e sciampi culturali, ho preferito un apprendimento strutturato e metodico e mi sono rivolta, affrontando un’altra dura disapprovazione, ad una scuola di guida.

Avrei compiuto il percorso che avevo a mente.

Alla fine (ma fine non è) ho avuto nuovamente fame. Tanta.

A quel punto, però, il gioco perverso vorrei-ma-non-posso, si è tramutato nel più subdolo posso-ma-non-dovrei.

Perché pensavo di aver pagato la mia pena al percorso autoimposto, ma mi ritrovavo nuovamente a desiderare (solo più in grande) e a ritenere ancora che fosse azzardato.

Poi negli ultimi mesi ho iniziato un training speciale e ho provato diverse moto, ma non tutte avevano caratteristiche coerenti con la misura di una esperienza biennale.

Ad esempio Triumph Street Triple 675R, BMW F800GT, Yamaha MT-09, sono moto deliziosamente alloggiate sul gradino immediatamente successivo nella scala della complessità motociclistica. La BMW S1000RR, invece, no.

Succedeva dal concessionario BMW:

– E’ per la sua compagna?

– Sì.

– E che ci fa con una S1000RR? Lì c’è (giulivo) una bellissima F800GT: sicuramente una moto più adatta!

Il fatto è che la FGT mi piaceva tanto e infatti l’avevo provata, ma non mi aveva emozionato. Sulla carta sembrava la moto giusta, ma non l’ho sentita e l’ho messa via dai pensieri, come avrebbe fatto chiunque.

Quel giorno rientrai al parcheggio del concessionario, la S stretta tra le gambe e lo stomaco stretto in un pugno.

Grata, fiera, ubriaca di adrenalina!

Eppure sapevo che in quel momento si era combattuto un microscopico round non solo dentro me stessa, ma soprattutto nella battaglia dei generi, quella che le donne non possono concepire senza l’invasione di un territorio culturale che non appartiene loro ex ante.

Io mi sorprendo a contemplare, timidamente vogliosa, una BMW K1300R o una Kawasaki Z1000SX e a constatare che, almeno in apparenza, sembrano oggetti non congruenti con il mio curriculum personale.

Ecco. volevo scrivere di donne, percorsi, moto, scelte.

Ho iniziato parlando della mia storia, non perché speciale o degna di risalto, quanto perché sono una pragmatica e ritengo, fuori dagli “-ismi” culturali che aborro, che sia anche la storia di molte, o che a molte possa, in qualche modo, parlare di sé, oltre che di me.

Il punto è che un uomo comprerebbe un K o una Z col solo gesto del portafoglio. A me, ad una donna, costa la fatica mentale di darsi il permesso di ricominciare, di esporsi di nuovo all’incertezza dell’oggetto sovradimensionato e alla paura di non saperlo gestire. Fallire.

Gli uomini crescono “potendo”, le donne “volendo”.

Mi domando: potrebbe scriverlo un uomo questo articolo? Certo!

Ma leggeremmo, probabilmente, una prudente disamina delle moto più accessibili al Gentil Sesso, le cui quote ciclistiche sarebbero tali da agevolare l’approccio e la gestione alle Donzelle in sella.

Il tenero meccanico in officina Kawasaki mi rimontò, sul nuovo manubrio, le manopole con i comandi ruotati verso l’alto: voleva fare cosa gradita poiché, gli avevano detto, era la moto de’ ‘na pischella’.

Ora, intendiamoci, non è che gli uomini siano tutti ottusi, o che io non afferri l’evidenza di un dimorfismo sessuale. Ma parliamo di dati medi e di individui “nudi”. Parliamo di un’equazione che tende asintoticamente all’eguaglianza, perché le moto sono anzitutto ornamenti dell’anima e come tali ce ne agghindiamo tutti, ognuno a modo proprio.

Siamo esseri adattivi, le complessità ci misurano. Siamo capaci di reinventarci, capaci di compensare le carenze strutturali attraverso l’organizzazione e l’esperienza. E ritengo che la maggior parte dei limiti che ci poniamo alla possibilità di ottenere soddisfazione, risiedano nella difficoltà che abbiamo di oltrepassarci.

Quindi, il tema “quale moto è più adatta alle donne”, voglio riscriverlo in “quale moto le donne si danno il permesso di possedere”.

E ogni volta che vedo una donna col motòne, porto lo sguardo a lei non con invidia, ma con ammirazione, come quando in natura gli animali imparano a cacciare imitando i propri simili.

Sul piano sociale e culturale, le donne si fanno spesso latrici di esperienze che entrano nel sentire comune, consolidandosi in una coscienza collettiva: dimostrare che qualcosa è possibile è assai più che spiegarlo a parole.

K1300R e Milla Jovovich

Penso continuamente al K1300R, la moto postatomica. Pesa 243 kg ed è alta 82 cm, ma BMW pensa a tutti e fa anche la sella da 79.

Ha 173 CV furiosi pronti alla manetta, ma un sacco di bella elettronica che ti coccola il giusto e ti consente di impararla per gradi.

Ecco: questa moto mi fa tremare le vene dei polsi.

Non so se la comprerò ora, la prossima volta o forse mai.

Ci sono anche altre moto che mi piacciono assai.

Ma ora valuto serena, non più obliqua. Quando la guardo gonfio il petto, perché so che mi sono accordata il permesso di potere.

Dopotutto, penso, di un errore di acquisto ci si può pentire. Ma è peggio trovarsi nell’impossibilita di dimostrare a noi stessi che ben sappiamo fare una scelta. 

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Ragazze, diffidate degli alti!

Ragazze, diffidate degli alti.

Lo so, mi rendo conto che sia una posizione alquanto perentoria e generalistica, ma datemi retta. Diffidate degli alti.
I motociclisti “alti” (sopra i 175 cm) sono portati a pensare che sia assolutamente impossibile andare in moto senza toccare con entrambi i piedi per terra, sono convinti che poter “zampettare” stando seduti sopra la moto sia l’unico modo possibile per fare manovre e non credono in nessuna maniera che una ragazza sui 50 kg possa gestire una moto di 200 kg. Manco ce la dovessimo portare a spalla, dico io.

Questo perché la “natura” non li ha mai portati a farlo e non perché sia realmente pericoloso o peggio ancora “quasi impossibile”, e – scusatemi se insisto – poco conta se la persona che vi suggerisce questa idea ha 10-20-30 anni di moto sulle spalle: perché per tutti quegli anni non avrà fatto neanche una volta quello che farete voi. O se ci ha provato si è trovato in difficoltà dimenticandosi che era la sua prima volta ed è normale dover prendere le misure.

...e hop!Parto dal presupposto che andare in moto non sia un diritto, i diritti son ben altri, e che non tutti siano portati per la guida, ma se vi piace la cosa e avete realmente intenzione di seguire la vostra passione non fatevi deviare. Attenzione che qui prendo un’altra posizione forte e tendenzialmente impopolare: solo voi sapete quel che è meglio per voi stesse. Ok, dai diciamo che se non avete mai guidato e iniziate a fare la ronda ad una 1198 Troy Bayliss magari in quel caso un esamino di coscienza me lo farei. Ma tendenzialmente le ragazze sono abbastanza brave ad autolimitarsi e riconoscere i propri limiti, pure troppo. Sono anche straordinariamente brave ad abbattersi e pensare che “avevano ragione, quella roba non fa per me”.

Lo scenario standard è che in assenza di dimestichezza coi comandi, con un appoggio a terra non perfetto e una forza fisica inferiore a quella di un uomo, ad ogni “ciuff” (rumore tipico del motore a quattro tempi che si spegne perché troppo basso di giri) ne consegue una probabile quanto innocua caduta da fermo. Ma il rumore di una moto che cade e l’impatto emotivo di vederla a terra abbandonata a se stessa è sempre una cosa non positiva. Ed ecco che la ragazza demotivata spesso si rifugia nel suo mentore dicendogli “pesa tanto, non ci tocco, avevi ragione. Comprerò una moto che non mi piace, ma più adatta a me”. Ecco, signore, ve ne prego. Non cadete in questa considerazione della moto “più adatta a me”.

Lo so che si dice che son tutti omosessuali con il lato B altrui (ehm, forse non era proprio così), ma chi vi scrive è alta 1.59 e certo non con la zampa lunga e se dovesse guidare una moto in cui tocca con entrambi i piedi per terra non dovrebbe andare oltre la 883. Eppure a me piacevano altre moto, eppure a me piacevano le enduro anche. E quindi che fare? Niente, nessun coniglio dal cilindro. Ma quando c’è una passione vera come quella che muove tante altre lady allora si cade comunque, ma ci si rialza e giorno dopo giorno si apprendono delle piccole astuzie: si impara prima di arrivare ad uno stop a sbilanciare leggermente la moto da lato in cui volete poggiare il piede (ecco che non ne servono più due), si impara a fare manovra scendendo dalla moto ed appoggiandosela al fianco, si Ecco.impara a spostarla con la prima marcia e il motore (ed ecco che la moto non pesa più) e si può anche imparare la tecnica giusta per rialzare da sole la moto sfruttando le leve più favorevoli della moto stessa (ma se c’è qualcuno a darci una mano, tanto meglio).

Non date quindi retta a chi suggerisce di modificare la moto con le biellette (lowering kit), o peggio chi punta a modificarne la ciclistica infilando la piastra sulla forcella e spompando il mono posteriore in modo che quando vi sedete guadagnate 5-6cm. Anche la sella esageratamente bassa è una cosa che vi incassa, vi costringe in una posizione obbligata e vi toglie piacere di guida, sì perché la moto dev’essere prima di tutto guidabile.

E quando vi fermate per definizione mica state guidando.

 articolo di Giada “Ghiaia” Beccari, che ringraziamo!