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Alla fine, come è andata.

Questo articolo è il seguito di Quale moto è più adatta alle donne, pubblicato il 18 settembre 2014.

La moto totale non esiste.
Me lo avevano detto quelli più grandi ed esperti e ora lo ripetevo come un mantra, scorrendo a mente l’elenco delle cose cui stavo per rinunciare nel cambiare modello.

Avevo fatto ordine nei pensieri (o così ritenevo), dragando consigli a destra e a manca. Avevo anche compilato una wishlist con modelli selezionati, che nel tempo si era riempita di commenti e cancellature.

Alla fine avevo scelto la bellissima Honda CB1000R: nel mio “immaginario collettivo” il mio impegno doveva crescere con la cilindrata!

Poi, si sa: siamo donne e l’estetica ha il peso specifico dell’uranio perciò, comodamente seduta sulla piccola Kawa, attendevo che gli annunci dell’usato partorissero quella nera/oro, che mi piaceva da impazzire.

WishlistMa chi ti vede da fuori per ciò che realmente sei e ti percorre da dentro con amore, ha di te la sintesi migliore. Se costui è anche un profondo conoscitore di cose di moto, non poteva passare inosservato che l’esperienza della pista mi era piaciuta troppo per restare circoscritta e che la mia guida ne aveva ulteriormente tratto un piglio sportivo, anche se non velocissimo.

E’ andata che, in una manciata di giorni, mi sono ritrovata sull’autostrada con un CBR600RR del 2009 seminuovo stretto tra mani e gambe; sorridevo felice nel casco e, mentre il sole tramontava nei campi eolici, me la portavo a casa.

Sulla wishlist non c’era mai entrata.

Iniziava una sfida, era una moto da corsa quella che avevo ora in garage: se la presenza di carene appagava il mio senso estetico e l’esigenza di proteggermi dal vento (cui andavo a rinunciare con la naked CB), tutto il resto mi appariva una complicazione cui non sapevo come avrei fatto fronte.
Non mi considero più una principiante, piuttosto una second-cipiante, una di secondo pelo. Uno stato limbico per cui non mi soccorre la terminologia, un né-carne-né-pesce in cui non puoi più fare le cazzate da pivella, ma ancora non hai il calibro per fare a gara di sputi con i maschi.

Quanto basta, comunque, per rendermi conto che la prima cosa da capire bene erano i semimanubri. La breve esperienza di guida sulla BMW S1000RR era servita a poco, in tal senso.

Mi sono seduta e ho iniziato a studiare.
Il dislivello con la sella mi è parso immediatamente non eccessivo; per una persona dalle lunghezze medie come le mie, le braccia non risultano eccessivamente caricate e ciò consente di guidare a lungo senza stancarsi troppo il busto: con un poco di adattamento si è reso possibile persino un viaggio di 3000 km in 9 giorni.
Tuttavia, questa configurazione dell’avantreno si accompagna a un’immediata impressione di ridotto raggio di sterzata e alla sgradita sensazione, a battuta, dei gomiti che urtano sulle gambe, dove sembra finire l’agevolezza di governare le manovre da fermo, o a bassa velocità.
Insomma mi procuro subito rogna con i semimanubri, perché sembra che senza catarsi non ci sia gusto nell’apprendimento e questo diventa lo scoglio da superare.

Nonostante questo, tutto il resto me la fa amare immediatamente.
CBR600RRLa sella è posizionata a soli 820 mm di altezza e mi consente un appoggio a terra piuttosto saldo: non trascurabile per me, che soffro il peso nelle manovre. A dispetto dell’evidente ridotto spessore è soffice e molto comoda. Per essere una supersport la cosa mi stupisce subito, specie quando mi rendo conto che la morfologia sella-serbatoio è tale da non infastidirmi come faceva la Kawa, che mi imponeva continui cambi di posizione e mi faceva rimpiangere di avere tutta questa magnifica attrezzatura femminile.
Il sottosella? Dimentichiamolo!

Le sospensioni sono molto rigide, come si confà alla sua razza, ma interamente regolabili. Le tengo aperte al massimo per la guida urbana, e non mai abbastanza per le buche di questa città, dove faccio spesso il fantino in piedi sulle pedane.
In ogni caso tale assetto non penalizza per niente la guida allegra su strada: questa moto è precisa come un pennino su un lucido; capace di inserimenti in curva veloci e traiettorie incise, scende in piega anche solo con lo spostamento del busto; spingendo sulle pedane è un compasso e chiude la traiettoria con un filo di controsterzo, l’avantreno sensibile ma stabilissimo.
Quando torneremo in pista penseremo a un assetto più consono e affilato.

Ha freni potenti, come potrebbe essere altrimenti?
E ha l’ABS, la volevo così, che mi togliesse anche il pensiero del bloccaggio pericoloso.
Mamma Honda ha brevettato il C-ABS combinato per uso sportivo e dal 2009 l’ha installato sull’RR.
Ma questo dispositivo, che da solo fa 10kg dei 194 complessivi in ordine di marcia, ha un’azione (ripartita elettronicamente) così discreta e calibrata che mi fa ripensare con sgomento all’invadenza del medesimo installato sulla Kawasaki ER6-f, che entrava in azione per molto poco, sferragliando come un treno in stazione.
Naturalmente pariamo di un sistema installato su una supersport, che concede un certo grado di libertà ad una guida più incisiva, fatta anche di staccate potenti, ma ha un’azione realmente poco percettibile ed essendo così scarsamente comunicativo non segnala l’azione con evidenza a chi, come me, si conta gli errori di guida, compreso il bloccaggio della ruota.

Il cambio è Honda: preciso! La frizione è piuttosto morbida.

Il motore è rotondo e progressivo, con una coppia massima di 66 Nm a 11.250 giri/minuto; comunque bella piena anche ai bassi regimi, diventa notevole a partire dai 7000 giri, complice anche la rapportatura molto corta (a 130 in 6a il motore è appunto a quel regime, stratosferico rispetto ai 4900 giri della mia vecchia ER6-f).
La potenza è tanta: 120 cv a 13.500 giri/minuto, e con il limitatore a circa 15.000 giri, il motore sembra non finire mai. Sì, perché una delle cose notevoli di questa moto è che talmente morbida, educata ed equilibrata, che si fa fatica a immaginare cosa succede sopra i 7000 giri e tutta l’emozione che è in grado di regalare quando la si spinge sul serio.

Dati…
Parliamoci chiaro: una recensione tecnica la si può leggere ovunque, il CBR600RR è una delle presenze più rassicuranti del mercato giapponese e su di essa sono state scritte decine di articoli. La sua dinastia è così longeva e hanno avuto così tanto materiale per migliorala nel tempo, da produrre una moto difficilmente perfezionabile.

Ma non è tutto qui. Il punto è che questa moto è bella, ha personalità infinita, è sexy! Quando la monto mi sento più bella anche io; in strada si girano anche i semafori e i maschietti fanno a gara a tirare anche con l’SH.

Prima ancora di possederla, sapevo molte cose su di Lei. Alcune per averle lette, altre sentite, altre ancora immaginate. Queste ultime erano le meno aderenti alla realtà, perché galleggiavano sull’insicurezza della scelta, come ad esempio la difficoltà di gestione delle faccende quotidiane, aspetto assai importante per una che, come me, usa la moto come mezzo principale.

Cosa direbbero i maschietti che tirano al semaforo, se sapessero che il ragno che ho sul codone serve per la sporta del supermercato?

Quello che non sapevo io, invece, quel che non è scritto in nessuna delle recensioni tecniche che ho letto in giro, è come mi sarei sentita in sella a questo oggetto.

Ho parlato a lungo con un’amica che si è dovuta riscoprire nuovamente motociclista. Lei mi ha raccontato di emozioni sopite, accantonate, cui sentiva il bisogno di riappropriarsi attraverso la scelta di un esemplare che la scuotesse di nuovo. Sensazioni che io, allora, intuivo solamente, tra una prova e l’altra di moto sconosciute, pur se magnificamente appetitose.
Lei le chiama farfalline nella pancia, ma ritenendomi una motociclista media, mediamente soddisfatta da una moto media, lo avrei capito solo più tardi.

Io credo che questi ferri “diventino” moto solo dal momento in cui appartengono a una persona e di essa si legano alle emozioni. Prima di allora sono solo recensioni illustrate.
Non è mai scontato che ci si trovi, che ci si capisca, che ci si leghi. In equitazione un binomio sbagliato non corre e non vince.
E adesso è chiaro anche per me; questa è la mia CBR600RR. Ce ne sono tante come lei, ma questa è la mia.
Non credo si debba provare mai più niente di meno che questo.

La questione che solleva una moto di tal fatta è cosa c’è dopo.
Imparare -seriamente- con questa significa arrivare alla guida sportiva, anche in pista, senza farsi male, senza la tensione emotiva di dover gestire una mandria di cavalli imbizzarriti (e d’altra parte, senza il rassicurante babysitting dell’elettronica moderna). Significa salire su qualsiasi naked e gestirla con disinvoltura. E significa guardare alle sport-tourer (e io ci guardo di continuo) avendo imparato gli equilibri della guida con semimanubri senza il fardello del peso eccessivo.
Questa motocicletta è la scuola che non vedi l’ora di frequentare.

Oggi apro i gomiti, uso tutta la lunghezza delle manopole, sposto il ginocchio. Mi riposiziono in sella con geometrie variabili, adattamento, fantasia. Devo rimappare la mia posizione, la mia percezione sui lati del serbatoio, i miei spazi su di lei. E questa nuova, costante ricerca di equilibri mi fa ricominciare da me un’altra volta, con strumenti che già conosco e disegnare un atlante magnifico, tracciando un nuovo continente.

Quale moto è più adatta alle donne

(Storia di una Donzella in cerca di una cavalcatura seria)

Mi vedevo: ero lì che la prendevo larga, ci giravo intorno, mi mettevo obliqua, come quella vela che non voglia prender vento e drappeggia lasca e inutile.

Mi vedevo galleggiare sull’idea, crogiolandomi nel compiacimento del dubbio. Come se desiderar di desiderare fosse intimamente più gustoso e rassicurante che affrontare la paura di aver paura.

Poi ho iniziato a riflettere.

E a negoziare.

Ho smontato tutti gli apparati giustificatori che mi separavano non già dalla possibilità di “desiderare grosso”, ma dalla accettazione che niente è mai abbastanza, se fatto per se stessi.

E ho capito che, solo allora, la parallasse che regna sovrana tra volere e ottenere si annulla e ci vediamo realmente per quello che siamo: meritevoli e fieri dei nostri giocattoli, non importa quanto grandi.

Oggi sono due anni che possiedo una moto che adoro e dalla quale non sono più scesa; ma ora mi siedo un attimo, perché prima di separarmene e procedere nella crescita motociclistica, voglio cercare la mia traccia a terra per capire in che modo ho percorso la -breve- strada fin qui.

Grrrrrl

L’inizio è chiaro. Volevo la moto e ho fatto due guerre: una per averla, una per godermela.

Per la scelta fui consigliata da un uomo, nell’ovvia misura del giusto: dovevo volere una moto intorno ai 600 cc, non più cattiva di una settantina di cavalli. Serviva bassa di sella e non particolarmente pesante, ritenendo che 10-20 kg facessero la differenza tra tenerla o non tenerla in piedi.

Quando l’inesperienza te la fa contemplare col nodo in gola, sdraiata a terra, senza capire come ci è finita e perché non hai lottato per non lasciarla andare, non lo sai che è quasi ininfluente.

Ho girato poco e abbastanza in fretta, come chi fa le cose di nascosto: con l’ansia e col tempo alle costole. Quando sono entrata in Kawasaki ho capito che avevo trovato l’oggetto delle dimensioni esatte e mi sono fatta incartare una ER-6f ABS, nera, col mollone rosso. Bella da morire.

Lo stesso giorno che me la sono portata a casa, mentre mi preparavo ad affrontare una dura disapprovazione, l’ho buttata a terra all’obelisco della Colombo. I tassisti sghignazzavano.

Allora quella voce che mi abitava dentro, e che tenevo faticosamente in ipossia, ha ripreso fiato e ha iniziato ad urlare:

<te-l’-avevo-detto-te-l’-avevo-detto-te-l’-avevo-detto…>

Da quel giorno fanno due anni, 20.000 km di strada e altrettanti di gallerie psicologiche, che nemmeno i Nani di Moria (un Claudio capirà).

In tutto questo tempo ho voluto dare importanza al tema dell’apprendimento e del percorso formativo, perché fermamente convinta che solo dopo aver consumato gomme e tenuto un profilo umilmente basso, avrei assunto credibilità, meritato l’appellativo di motociclista, guadagnato il diritto di desiderare altre moto e costruito un’opinione per poter sceglierne.

Infatti mi opposi presto all’ “uomo del consiglio”, poiché egli riteneva essere la strada l’unica vera insegnante di guida e stava scegliendo per me in che modo avrei dovuto imparare ad andare in moto.

Dopo un anno di sguardo basso, cenere sul capo e sciampi culturali, ho preferito un apprendimento strutturato e metodico e mi sono rivolta, affrontando un’altra dura disapprovazione, ad una scuola di guida.

Avrei compiuto il percorso che avevo a mente.

Alla fine (ma fine non è) ho avuto nuovamente fame. Tanta.

A quel punto, però, il gioco perverso vorrei-ma-non-posso, si è tramutato nel più subdolo posso-ma-non-dovrei.

Perché pensavo di aver pagato la mia pena al percorso autoimposto, ma mi ritrovavo nuovamente a desiderare (solo più in grande) e a ritenere ancora che fosse azzardato.

Poi negli ultimi mesi ho iniziato un training speciale e ho provato diverse moto, ma non tutte avevano caratteristiche coerenti con la misura di una esperienza biennale.

Ad esempio Triumph Street Triple 675R, BMW F800GT, Yamaha MT-09, sono moto deliziosamente alloggiate sul gradino immediatamente successivo nella scala della complessità motociclistica. La BMW S1000RR, invece, no.

Succedeva dal concessionario BMW:

– E’ per la sua compagna?

– Sì.

– E che ci fa con una S1000RR? Lì c’è (giulivo) una bellissima F800GT: sicuramente una moto più adatta!

Il fatto è che la FGT mi piaceva tanto e infatti l’avevo provata, ma non mi aveva emozionato. Sulla carta sembrava la moto giusta, ma non l’ho sentita e l’ho messa via dai pensieri, come avrebbe fatto chiunque.

Quel giorno rientrai al parcheggio del concessionario, la S stretta tra le gambe e lo stomaco stretto in un pugno.

Grata, fiera, ubriaca di adrenalina!

Eppure sapevo che in quel momento si era combattuto un microscopico round non solo dentro me stessa, ma soprattutto nella battaglia dei generi, quella che le donne non possono concepire senza l’invasione di un territorio culturale che non appartiene loro ex ante.

Io mi sorprendo a contemplare, timidamente vogliosa, una BMW K1300R o una Kawasaki Z1000SX e a constatare che, almeno in apparenza, sembrano oggetti non congruenti con il mio curriculum personale.

Ecco. volevo scrivere di donne, percorsi, moto, scelte.

Ho iniziato parlando della mia storia, non perché speciale o degna di risalto, quanto perché sono una pragmatica e ritengo, fuori dagli “-ismi” culturali che aborro, che sia anche la storia di molte, o che a molte possa, in qualche modo, parlare di sé, oltre che di me.

Il punto è che un uomo comprerebbe un K o una Z col solo gesto del portafoglio. A me, ad una donna, costa la fatica mentale di darsi il permesso di ricominciare, di esporsi di nuovo all’incertezza dell’oggetto sovradimensionato e alla paura di non saperlo gestire. Fallire.

Gli uomini crescono “potendo”, le donne “volendo”.

Mi domando: potrebbe scriverlo un uomo questo articolo? Certo!

Ma leggeremmo, probabilmente, una prudente disamina delle moto più accessibili al Gentil Sesso, le cui quote ciclistiche sarebbero tali da agevolare l’approccio e la gestione alle Donzelle in sella.

Il tenero meccanico in officina Kawasaki mi rimontò, sul nuovo manubrio, le manopole con i comandi ruotati verso l’alto: voleva fare cosa gradita poiché, gli avevano detto, era la moto de’ ‘na pischella’.

Ora, intendiamoci, non è che gli uomini siano tutti ottusi, o che io non afferri l’evidenza di un dimorfismo sessuale. Ma parliamo di dati medi e di individui “nudi”. Parliamo di un’equazione che tende asintoticamente all’eguaglianza, perché le moto sono anzitutto ornamenti dell’anima e come tali ce ne agghindiamo tutti, ognuno a modo proprio.

Siamo esseri adattivi, le complessità ci misurano. Siamo capaci di reinventarci, capaci di compensare le carenze strutturali attraverso l’organizzazione e l’esperienza. E ritengo che la maggior parte dei limiti che ci poniamo alla possibilità di ottenere soddisfazione, risiedano nella difficoltà che abbiamo di oltrepassarci.

Quindi, il tema “quale moto è più adatta alle donne”, voglio riscriverlo in “quale moto le donne si danno il permesso di possedere”.

E ogni volta che vedo una donna col motòne, porto lo sguardo a lei non con invidia, ma con ammirazione, come quando in natura gli animali imparano a cacciare imitando i propri simili.

Sul piano sociale e culturale, le donne si fanno spesso latrici di esperienze che entrano nel sentire comune, consolidandosi in una coscienza collettiva: dimostrare che qualcosa è possibile è assai più che spiegarlo a parole.

K1300R e Milla Jovovich

Penso continuamente al K1300R, la moto postatomica. Pesa 243 kg ed è alta 82 cm, ma BMW pensa a tutti e fa anche la sella da 79.

Ha 173 CV furiosi pronti alla manetta, ma un sacco di bella elettronica che ti coccola il giusto e ti consente di impararla per gradi.

Ecco: questa moto mi fa tremare le vene dei polsi.

Non so se la comprerò ora, la prossima volta o forse mai.

Ci sono anche altre moto che mi piacciono assai.

Ma ora valuto serena, non più obliqua. Quando la guardo gonfio il petto, perché so che mi sono accordata il permesso di potere.

Dopotutto, penso, di un errore di acquisto ci si può pentire. Ma è peggio trovarsi nell’impossibilita di dimostrare a noi stessi che ben sappiamo fare una scelta. 

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Ragazze, diffidate degli alti!

Ragazze, diffidate degli alti.

Lo so, mi rendo conto che sia una posizione alquanto perentoria e generalistica, ma datemi retta. Diffidate degli alti.
I motociclisti “alti” (sopra i 175 cm) sono portati a pensare che sia assolutamente impossibile andare in moto senza toccare con entrambi i piedi per terra, sono convinti che poter “zampettare” stando seduti sopra la moto sia l’unico modo possibile per fare manovre e non credono in nessuna maniera che una ragazza sui 50 kg possa gestire una moto di 200 kg. Manco ce la dovessimo portare a spalla, dico io.

Questo perché la “natura” non li ha mai portati a farlo e non perché sia realmente pericoloso o peggio ancora “quasi impossibile”, e – scusatemi se insisto – poco conta se la persona che vi suggerisce questa idea ha 10-20-30 anni di moto sulle spalle: perché per tutti quegli anni non avrà fatto neanche una volta quello che farete voi. O se ci ha provato si è trovato in difficoltà dimenticandosi che era la sua prima volta ed è normale dover prendere le misure.

...e hop!Parto dal presupposto che andare in moto non sia un diritto, i diritti son ben altri, e che non tutti siano portati per la guida, ma se vi piace la cosa e avete realmente intenzione di seguire la vostra passione non fatevi deviare. Attenzione che qui prendo un’altra posizione forte e tendenzialmente impopolare: solo voi sapete quel che è meglio per voi stesse. Ok, dai diciamo che se non avete mai guidato e iniziate a fare la ronda ad una 1198 Troy Bayliss magari in quel caso un esamino di coscienza me lo farei. Ma tendenzialmente le ragazze sono abbastanza brave ad autolimitarsi e riconoscere i propri limiti, pure troppo. Sono anche straordinariamente brave ad abbattersi e pensare che “avevano ragione, quella roba non fa per me”.

Lo scenario standard è che in assenza di dimestichezza coi comandi, con un appoggio a terra non perfetto e una forza fisica inferiore a quella di un uomo, ad ogni “ciuff” (rumore tipico del motore a quattro tempi che si spegne perché troppo basso di giri) ne consegue una probabile quanto innocua caduta da fermo. Ma il rumore di una moto che cade e l’impatto emotivo di vederla a terra abbandonata a se stessa è sempre una cosa non positiva. Ed ecco che la ragazza demotivata spesso si rifugia nel suo mentore dicendogli “pesa tanto, non ci tocco, avevi ragione. Comprerò una moto che non mi piace, ma più adatta a me”. Ecco, signore, ve ne prego. Non cadete in questa considerazione della moto “più adatta a me”.

Lo so che si dice che son tutti omosessuali con il lato B altrui (ehm, forse non era proprio così), ma chi vi scrive è alta 1.59 e certo non con la zampa lunga e se dovesse guidare una moto in cui tocca con entrambi i piedi per terra non dovrebbe andare oltre la 883. Eppure a me piacevano altre moto, eppure a me piacevano le enduro anche. E quindi che fare? Niente, nessun coniglio dal cilindro. Ma quando c’è una passione vera come quella che muove tante altre lady allora si cade comunque, ma ci si rialza e giorno dopo giorno si apprendono delle piccole astuzie: si impara prima di arrivare ad uno stop a sbilanciare leggermente la moto da lato in cui volete poggiare il piede (ecco che non ne servono più due), si impara a fare manovra scendendo dalla moto ed appoggiandosela al fianco, si Ecco.impara a spostarla con la prima marcia e il motore (ed ecco che la moto non pesa più) e si può anche imparare la tecnica giusta per rialzare da sole la moto sfruttando le leve più favorevoli della moto stessa (ma se c’è qualcuno a darci una mano, tanto meglio).

Non date quindi retta a chi suggerisce di modificare la moto con le biellette (lowering kit), o peggio chi punta a modificarne la ciclistica infilando la piastra sulla forcella e spompando il mono posteriore in modo che quando vi sedete guadagnate 5-6cm. Anche la sella esageratamente bassa è una cosa che vi incassa, vi costringe in una posizione obbligata e vi toglie piacere di guida, sì perché la moto dev’essere prima di tutto guidabile.

E quando vi fermate per definizione mica state guidando.

 articolo di Giada “Ghiaia” Beccari, che ringraziamo!

La passeggera riluttante

Va bene, diciamolo, a me tutta sta passione per la moto risulta incomprensibile. Mi fa sbuffare e alzare gli occhi al cielo: è una questione di fede, mi rendo conto. Sono atterrata sul sito sbagliato, mi direte. E invece no, perché io con questa fede ci convivo tutti i giorni.

Ricordo uno dei primi appuntamenti con quello che, sfidando le leggi della fisica (40 cm di differenza) e della mente (no, io non sono mai salita su una moto), sarebbe diventato mio marito. Ricordo ancora il VFR rosso su cui sono salita per la prima volta, con incoscienza (nel senso di inconsapevole noncuranza), preoccupandomi più che altro di come conciliare l’andare in moto con i miei due problemi esistenziali: il freddo e il fashion victimism.
Ho sempre pensato alla moto come un semplice mezzo, fatto per raggiungere uno scopo evidente e di natura pratica. Sempre più mi rendo conto che invece è davvero uno strumento di affermazione del Sé.
Non starò qui a raccontare le speranze di condivisione deluse, le giacche da moto comprate e indossate 6 volte in 6 anni. Non starò a dirvi che per me il casco è sempre stato l’odiato oggetto che rovina i capelli e che mai, dico mai, mi sarei sognata di vederlo appoggiare sul letto come un trofeo (che poi è sporco no? perché deve stare sul letto!?).

Insomma, ancora oggi, nonostante i tentativi di mediazione, evito di andare in moto perché l’inverno fa freddo, l’estate fa caldo, ho il torcicollo, poi puzzo di smog, ecc. Ancora rispondo piccata a chi mi chiede “perché non sei andata anche tu in Patagonia in moto?!”. Sempre meno riesco a far finta di interessarmi alle lunghe discussioni tra motociclisti perché, diciamoci anche questo, appena sento “moto” il mio cervello va in risparmio energetico. Ancora sbotto quando inciampo negli ingombranti e costosissimi accessori da moto, tenuti come reliquie …che non potevamo appassionarci a ‘na cosa meno invadente no?!

Nonostante le premesse melodrammatiche, io con questa passione ci convivo felicemente da anni. Anche perché è una passione portata avanti con forza ma anche con maturità e continua voglia di migliorarsi. Ed eccoci qui, a parlare di sicurezza in moto, quella parte meno divertente, quella che non è per niente appealing, che questo “Safe” nel nome io l’ho osteggiato per lungo tempo. Un po’ perché l’idea della sicurezza, appunto, è poco cool. Un po’ forse anche perché, sotto sotto, il tormentone moto=pericolo ci perseguita e anche i più spavaldi se lo portano dietro, e allora è meglio non parlarne proprio!

Ora, io non ci capisco nulla. So solo vagamente cosa sia una traiettoria, guido di malavoglia la macchina e quando guido sono (ero?) una persona pessima. Poi mi guardo intorno e capisco quanto fondamentale sia la sicurezza stradale. Mi guardo come sono oggi mentre guido e penso che tanto devo a chi mi ha riconciliato, per quanto possibile, con la strada e con il mezzo.

Mi guardo infine in moto, come passeggera riluttante e penso a quando, dopo aver preso le misure al mezzo e al guidatore, finalmente ho deciso che potevo stare sicura, e mi sono addormentata su una moto da corsa, in corsa, senza maniglie e senza bauletto.

 

articolo di Maria Nesticò (che ringraziamo!)