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Alla fine, come è andata.

Questo articolo è il seguito di Quale moto è più adatta alle donne, pubblicato il 18 settembre 2014.

La moto totale non esiste.
Me lo avevano detto quelli più grandi ed esperti e ora lo ripetevo come un mantra, scorrendo a mente l’elenco delle cose cui stavo per rinunciare nel cambiare modello.

Avevo fatto ordine nei pensieri (o così ritenevo), dragando consigli a destra e a manca. Avevo anche compilato una wishlist con modelli selezionati, che nel tempo si era riempita di commenti e cancellature.

Alla fine avevo scelto la bellissima Honda CB1000R: nel mio “immaginario collettivo” il mio impegno doveva crescere con la cilindrata!

Poi, si sa: siamo donne e l’estetica ha il peso specifico dell’uranio perciò, comodamente seduta sulla piccola Kawa, attendevo che gli annunci dell’usato partorissero quella nera/oro, che mi piaceva da impazzire.

WishlistMa chi ti vede da fuori per ciò che realmente sei e ti percorre da dentro con amore, ha di te la sintesi migliore. Se costui è anche un profondo conoscitore di cose di moto, non poteva passare inosservato che l’esperienza della pista mi era piaciuta troppo per restare circoscritta e che la mia guida ne aveva ulteriormente tratto un piglio sportivo, anche se non velocissimo.

E’ andata che, in una manciata di giorni, mi sono ritrovata sull’autostrada con un CBR600RR del 2009 seminuovo stretto tra mani e gambe; sorridevo felice nel casco e, mentre il sole tramontava nei campi eolici, me la portavo a casa.

Sulla wishlist non c’era mai entrata.

Iniziava una sfida, era una moto da corsa quella che avevo ora in garage: se la presenza di carene appagava il mio senso estetico e l’esigenza di proteggermi dal vento (cui andavo a rinunciare con la naked CB), tutto il resto mi appariva una complicazione cui non sapevo come avrei fatto fronte.
Non mi considero più una principiante, piuttosto una second-cipiante, una di secondo pelo. Uno stato limbico per cui non mi soccorre la terminologia, un né-carne-né-pesce in cui non puoi più fare le cazzate da pivella, ma ancora non hai il calibro per fare a gara di sputi con i maschi.

Quanto basta, comunque, per rendermi conto che la prima cosa da capire bene erano i semimanubri. La breve esperienza di guida sulla BMW S1000RR era servita a poco, in tal senso.

Mi sono seduta e ho iniziato a studiare.
Il dislivello con la sella mi è parso immediatamente non eccessivo; per una persona dalle lunghezze medie come le mie, le braccia non risultano eccessivamente caricate e ciò consente di guidare a lungo senza stancarsi troppo il busto: con un poco di adattamento si è reso possibile persino un viaggio di 3000 km in 9 giorni.
Tuttavia, questa configurazione dell’avantreno si accompagna a un’immediata impressione di ridotto raggio di sterzata e alla sgradita sensazione, a battuta, dei gomiti che urtano sulle gambe, dove sembra finire l’agevolezza di governare le manovre da fermo, o a bassa velocità.
Insomma mi procuro subito rogna con i semimanubri, perché sembra che senza catarsi non ci sia gusto nell’apprendimento e questo diventa lo scoglio da superare.

Nonostante questo, tutto il resto me la fa amare immediatamente.
CBR600RRLa sella è posizionata a soli 820 mm di altezza e mi consente un appoggio a terra piuttosto saldo: non trascurabile per me, che soffro il peso nelle manovre. A dispetto dell’evidente ridotto spessore è soffice e molto comoda. Per essere una supersport la cosa mi stupisce subito, specie quando mi rendo conto che la morfologia sella-serbatoio è tale da non infastidirmi come faceva la Kawa, che mi imponeva continui cambi di posizione e mi faceva rimpiangere di avere tutta questa magnifica attrezzatura femminile.
Il sottosella? Dimentichiamolo!

Le sospensioni sono molto rigide, come si confà alla sua razza, ma interamente regolabili. Le tengo aperte al massimo per la guida urbana, e non mai abbastanza per le buche di questa città, dove faccio spesso il fantino in piedi sulle pedane.
In ogni caso tale assetto non penalizza per niente la guida allegra su strada: questa moto è precisa come un pennino su un lucido; capace di inserimenti in curva veloci e traiettorie incise, scende in piega anche solo con lo spostamento del busto; spingendo sulle pedane è un compasso e chiude la traiettoria con un filo di controsterzo, l’avantreno sensibile ma stabilissimo.
Quando torneremo in pista penseremo a un assetto più consono e affilato.

Ha freni potenti, come potrebbe essere altrimenti?
E ha l’ABS, la volevo così, che mi togliesse anche il pensiero del bloccaggio pericoloso.
Mamma Honda ha brevettato il C-ABS combinato per uso sportivo e dal 2009 l’ha installato sull’RR.
Ma questo dispositivo, che da solo fa 10kg dei 194 complessivi in ordine di marcia, ha un’azione (ripartita elettronicamente) così discreta e calibrata che mi fa ripensare con sgomento all’invadenza del medesimo installato sulla Kawasaki ER6-f, che entrava in azione per molto poco, sferragliando come un treno in stazione.
Naturalmente pariamo di un sistema installato su una supersport, che concede un certo grado di libertà ad una guida più incisiva, fatta anche di staccate potenti, ma ha un’azione realmente poco percettibile ed essendo così scarsamente comunicativo non segnala l’azione con evidenza a chi, come me, si conta gli errori di guida, compreso il bloccaggio della ruota.

Il cambio è Honda: preciso! La frizione è piuttosto morbida.

Il motore è rotondo e progressivo, con una coppia massima di 66 Nm a 11.250 giri/minuto; comunque bella piena anche ai bassi regimi, diventa notevole a partire dai 7000 giri, complice anche la rapportatura molto corta (a 130 in 6a il motore è appunto a quel regime, stratosferico rispetto ai 4900 giri della mia vecchia ER6-f).
La potenza è tanta: 120 cv a 13.500 giri/minuto, e con il limitatore a circa 15.000 giri, il motore sembra non finire mai. Sì, perché una delle cose notevoli di questa moto è che talmente morbida, educata ed equilibrata, che si fa fatica a immaginare cosa succede sopra i 7000 giri e tutta l’emozione che è in grado di regalare quando la si spinge sul serio.

Dati…
Parliamoci chiaro: una recensione tecnica la si può leggere ovunque, il CBR600RR è una delle presenze più rassicuranti del mercato giapponese e su di essa sono state scritte decine di articoli. La sua dinastia è così longeva e hanno avuto così tanto materiale per migliorala nel tempo, da produrre una moto difficilmente perfezionabile.

Ma non è tutto qui. Il punto è che questa moto è bella, ha personalità infinita, è sexy! Quando la monto mi sento più bella anche io; in strada si girano anche i semafori e i maschietti fanno a gara a tirare anche con l’SH.

Prima ancora di possederla, sapevo molte cose su di Lei. Alcune per averle lette, altre sentite, altre ancora immaginate. Queste ultime erano le meno aderenti alla realtà, perché galleggiavano sull’insicurezza della scelta, come ad esempio la difficoltà di gestione delle faccende quotidiane, aspetto assai importante per una che, come me, usa la moto come mezzo principale.

Cosa direbbero i maschietti che tirano al semaforo, se sapessero che il ragno che ho sul codone serve per la sporta del supermercato?

Quello che non sapevo io, invece, quel che non è scritto in nessuna delle recensioni tecniche che ho letto in giro, è come mi sarei sentita in sella a questo oggetto.

Ho parlato a lungo con un’amica che si è dovuta riscoprire nuovamente motociclista. Lei mi ha raccontato di emozioni sopite, accantonate, cui sentiva il bisogno di riappropriarsi attraverso la scelta di un esemplare che la scuotesse di nuovo. Sensazioni che io, allora, intuivo solamente, tra una prova e l’altra di moto sconosciute, pur se magnificamente appetitose.
Lei le chiama farfalline nella pancia, ma ritenendomi una motociclista media, mediamente soddisfatta da una moto media, lo avrei capito solo più tardi.

Io credo che questi ferri “diventino” moto solo dal momento in cui appartengono a una persona e di essa si legano alle emozioni. Prima di allora sono solo recensioni illustrate.
Non è mai scontato che ci si trovi, che ci si capisca, che ci si leghi. In equitazione un binomio sbagliato non corre e non vince.
E adesso è chiaro anche per me; questa è la mia CBR600RR. Ce ne sono tante come lei, ma questa è la mia.
Non credo si debba provare mai più niente di meno che questo.

La questione che solleva una moto di tal fatta è cosa c’è dopo.
Imparare -seriamente- con questa significa arrivare alla guida sportiva, anche in pista, senza farsi male, senza la tensione emotiva di dover gestire una mandria di cavalli imbizzarriti (e d’altra parte, senza il rassicurante babysitting dell’elettronica moderna). Significa salire su qualsiasi naked e gestirla con disinvoltura. E significa guardare alle sport-tourer (e io ci guardo di continuo) avendo imparato gli equilibri della guida con semimanubri senza il fardello del peso eccessivo.
Questa motocicletta è la scuola che non vedi l’ora di frequentare.

Oggi apro i gomiti, uso tutta la lunghezza delle manopole, sposto il ginocchio. Mi riposiziono in sella con geometrie variabili, adattamento, fantasia. Devo rimappare la mia posizione, la mia percezione sui lati del serbatoio, i miei spazi su di lei. E questa nuova, costante ricerca di equilibri mi fa ricominciare da me un’altra volta, con strumenti che già conosco e disegnare un atlante magnifico, tracciando un nuovo continente.

Guidare la moto è come risolvere il cubo di Rubik

Molti di voi lo ricorderanno per averlo tenuto in mano e non aver saputo come maneggiarlo. Non siate maliziosi, parlo del cubo magico o cubo di Rubik. Ma anche chi non è passato attraverso l’esperienza di aver provato a risolverlo quand’era ragazzino magari l’ha conosciuto in questi giorni grazie a Google che gli ha dedicato un banner. Personalmente lo avevo rimosso dalla memoria ma nei giorni scorsi, proprio grazie a Google, ho avuto modo di approfondirne i segreti per la sua risoluzione e mi sono accorto che ha tantissime similitudini con il “guidare bene una moto”.

Lo so che sulle prime vi sembrerà un’affermazione avventata e che ai più tale similitudine non balzerà agli occhi, ma la realtà dei fatti è che guidare bene una moto è come risolvere il cubo di Rubik. Se provate a digitare su Youtube “soluzione al cubo di Rubik” troverete tantissimi video che vi spiegano come l’applicazione in sequenza di alcuni algoritmi (parecchio complessi) permetta di arrivare sempre alla soluzione benché le combinazioni possibili siano praticamente infinite (non è esatto, ma sono diversi miliardi).

Non solo, scoprirete che delle menti illuminate riescono ad applicare tutti questi algoritmi a velocità impensabili ed a risolverlo in tempi compresi tra i 5 ed i 10 secondi. Sono dei veri talenti. Il passaggio chiave però non sta nella velocità e nel talento, il passaggio chiave sta nel fatto che tali algoritmi vengono applicati in sequenza e, paradossalmente, alcuni sembrano allontanare il giocatore dalla soluzione ma, in realtà, si tratta solo di passaggi obbligati per raggiungere l’obbiettivo. Tali algoritmi vanno applicati tutti nella sequenza corretta senza essere saltati ed eseguiti senza commettere il minimo errore, o il cubo non potrà essere risolto. Sono passaggi precisi che non si posso improvvisare e che per essere eseguiti necessitano di tanto allenamento e di tanta attenzione. Cosa c’è di diverso dal guidare bene una moto? Ve lo dico io: nulla.

Guidare bene una moto presuppone che le cose vadano fatte tutte (nessuna esclusa), nella giusta sequenza ed eseguite correttamente. Per poter padroneggiare quest’arte inoltre è necessario passare attraverso diversi passaggi che non possono essere saltati. Le menti illuminate sapranno scegliere la sequenza più corretta, non sbaglieranno l’esecuzione e sapranno svolgere tale compito a velocità superiore agli altri; i piloti ne sono un esempio per quanto concerne la guida in pista. I più bravi sono tali perché fanno le cose giuste, al momento giusto e nel modo giusto. Ed hanno imparato a farlo perché hanno compiuto anche tutti i passi necessari per imparare a farlo (per imparare gli algoritmi e come e quando metterli in sequenza). Ma come per il cubo di Rubik, non è la velocità ed il talento ad essere la chiave del discorso, la chiave è che per arrivare ad un dato risultato (guidare bene la moto) bisogna giocoforza passare attraverso dei passaggi intermedi che, all’utente distratto, posso far sembrare che la direzione intrapresa sia sbagliata ma che si saltassero non porterebbero mai al risultato finale. Tali passaggi si imparano in diversi modi: attraverso l’esperienza e/o attraverso lo studio. In entrambi i casi, con umiltà, impegno ed attenzione costante. Purtroppo la moto non fa eccezione rispetto a tutte le altre cose della vita.

un cubo per ciascunoRecentemente ho vissuto un’esperienza illuminante. Le premesse a questa esperienza sono due: la prima è che io mi considero un medio-bravo motociclista, che sono consapevole dei miei limiti e sono anche consapevole che sul globo esistono molti motociclisti migliori di me. La mia vanità ogni tanto mi fa pensare però di essere un po’ più bravo di quanto non sia nella realtà delle cose. In parte mi inganna la memoria storica di quando ero effettivamente più bravo, allenato, svelto, sensibile e chi più ne ha più ne metta… in una parola, di quando ero più giovane ed in parte accade perché con il passare del tempo si consolida la convinzione di essere già riuscito a risolvere il cubo e che non sia necessario risolverlo ogni volta che si esce in moto. Due errori da non fare. Il cubo, quando si è in moto, va risolto sempre. La seconda considerazione mi serve per rimarcare semplicemente quanto abbiamo già detto: qui non si tratta di velocità di esecuzione ma semplicemente di trovare le giuste sequenze per arrivare al risultato e che per farlo magari occorre passare per una sequenza che disfa parte del cubo già fatto per ottenere alla fine un cubo ancor più completo.

Beh, l’esperienza di cui volevo parlarvi è semplice: ho guidato alle spalle di uno bravo. Per bravo intendo bravo e non spericolato. Parlo di uno che guida bene, che imposta curve rotonde, pulite, non frena mai, viaggia veloce e si vede che ha dei margini anche quando la velocità in rapporto al suo mezzo è elevata. Ma come fa? Non vi annoierò con tutte le considerazioni che mi sono passate in testa e con le prove che ho fatto da solo in quei km. Vi basti sapere che, confrontandomi con lui, mi sono reso conto che utilizza mediamente una marcia in meno di me. Semplicemente una scelta di rapporti? Si, certo, un filo in più di freno motore, un po’ di più di tiro a centro curva, ma sta tutto qui? Potrebbe anche essere, in fin dei conti il mio cubo non è la performance assoluta ma riuscire a non toccare il freno neppure quelle poche volte che l’ho dovuto fare, essere ancor più rotondo e superare la paura di quei pochi gradi in più di piega. Per scoprirlo ho provato ad imitarlo e, anche se il mio stile è leggermente diverso, mi sono accorto che la cosa funzionava abbastanza; a quel passo, su quella strada, la scelta dei rapporti era più equilibrata ma nonostante questo non riuscivo ad ottenere il medesimo risultato sentendomi sicuro al 100%. Il freno non lo toccavo più ma mi restava una certa dose di incertezza. Così mi sono osservato e mi sono studiato.

Mi sono accorto di due cose: la prima è che avendo cambiato leggermente stile mi irrigidivo nell’ingresso di curva e la seconda (strettamente correlata) è che essendo la mia mente abituata a certe sensazioni era reticente ad accettarne altre (entrare in curva un po’ più veloce e percorrere la curva leggermente più forte). In particolare la mia mente era convinta, per dirla facile, che sarei andato per terra benché i miei sensi non lo percepissero. Ho dovuto far collimare i sensi e la mente ma per poterlo fare ho dovuto eseguire dei passaggi intermedi, applicare degli algoritmi. Piano, piano. Mi sono dovuto inventare un sistema per evitare che le braccia diventassero più rigide di quanto fosse necessario. Quindi, applicato l’algoritmo delle cambiate e successivamente applicato l’algoritmo atto ad ottenere maggiore sensibilità e meno rigidità ho risolto quel pezzo di cubo. Non avrei potuto fare uno solo di questi passaggi per ottenere il risultato che mi ero prefissato. Le cose vanno insieme, fatte nella sequenza giusta e svolte nel modo giusto. In tutti gli altri casi, il cubo non si risolve.

La cosa buffa è come ho “lavorato” per ritrovare sensibilità e dolcezza e non irrigidirmi troppo in ingresso curva. Mi sono inventato un esercizio che può sembrar cretino, che può sembrare una cosa inutile o addirittura allontanare dall’obbiettivo. Io ve lo dico, senza che questo debba essere considerata una perla di saggezza, mi serve solo per far comprendere il senso di quanto sto dicendo nella sua accezione più ampia. Mentre viaggiavo in rettilineo mi sono messo ad ondeggiare i gomiti in su ed in giù. Una specie di svolazzamento. Mi sono poi imposto di fare la stessa cosa mentre percorrevo la curva. Chiaramente non ci sono entrato a cannone, ma mi sono imposto di continuare a far svolazzare le braccia e non toccare i freni. So già a cosa state pensando. Ma vi posso anche dire che fare quest’esercizio per riacquistare morbidezza l’ho trovato molto utile. Impossibile diventare rigidi, non avvicinare il busto, non spostare spalle e corpo nel modo corretto e riuscire a fare la curva, se la volete fare starnazzando come un’anatra. Fatta qualche curva così mi sono accorto che stavo più morbido e ne traevo dei benefici. Piano piano ho riacquistato sensibilità sull’anteriore. E così ho ripreso ad andare normalmente lasciando le braccia leggermente meno dure, muovendomi leggermente in avanti, insomma accompagnando meglio curva e moto. Il punto comunque è che starnazzare può sembrare un passo indietro, sulle prime mi son sentito anche piuttosto pirla, ma è stato un passaggio obbligato per sciogliere un’abitudine che si era consolidata; un passaggio obbligato per poter aggiungere un pezzo al mio algoritmo.

La scioltezza e la giusta misura tra forza ed elasticità sono alla base di una guida rotonda. Senza di quelle, le sensazioni percepite saranno sempre distorte ed il corpo non potrà muoversi come deve per accompagnare i movimenti della moto.

Per tornare al nostro cubo è stato proprio l’esercizio dello svolazzamento che mi ha fatto venire in mente il paragone tra come si risolve il cubo di Rubik ed il guidare bene una moto: disfare una cosa che sembrava fatta (erano anni che non mi potevo il problema) per ottenere alla fine un tassello in più. Lo so che la cosa non vi quaglia, che è passibile di critiche, ma il significato non sta nell’esercizio, il significato sta nel fatto che se non trovate il modo per stare meglio sulla moto, per fare un piccolo passo avanti, non potrete raggiungere un risultato leggermente migliore. Come ci arrivate è ininfluente. Utilizzate il sistema che vi piace di più (prove dirette, scuola di moto, studio personale, consigli di amici più bravi, osservazione di campioni, etc), ma cercare il miglioramento a volte passa per la demolizione e la ricostruzione di un automatismo sbagliato (o non completamente corretto). Non ci sono storie. Bisogna trovare il modo di fare la cosa giusta, l’algoritmo corretto. Perché solo le cose giuste possono portare alla soluzione del cubo.

Cosa ci insegna questa esperienza e cosa vuol dire questo lungo articolo che sono gli eroi saranno arrivati a leggere fino a questo punto: ci insegna che solo vedendo le cose fatte bene si può provare a copiarle ed a metterle in pratica. Ma ci insegna altre due cose: la prima è che una cosa apparentemente facile (guidare bene una moto), facile non è ma ci si può arrivare (come alla soluzione del cubo); la seconda è che saltare un passaggio, anche un solo passaggio, preclude la soluzione.

Mi rivolgo specialmente ai principianti, non focalizzatevi sul risultato finale (il cubo risolto) ma cercate di capire cosa fanno quelli capaci di risolverlo per arrivare alla soluzione. La chiave è solo e sempre quella: fare le cose giuste al momento giusto. Anche in termini di tempo per imparare. Non cercate di applicare tutti gli algoritmi insieme. Imparate i passaggi uno ad uno e poi allenatevi a metterli in sequenza, uno alla volta, piano piano. Create degli automatismi (sui quali restare vigili) e fin che non avrete appreso le basi non avventuratevi nella sequenza successiva. E se dovete demolire una vostra abitudine per far posto ad una migliore non abbiate paura a farlo. Solo così riuscirete ad avere tutte le facce del cubo dello stesso colore.

Mi permetto solo un’ultima considerazione che potrebbe sembrare ovvia ma che ovvia non è: ogni moto è un piccolo mondo, ogni moto necessita della propria tecnica. Ci sono molte diversità anche nel guidare due moto uguali ma di due persone diverse. Le regolazioni di gomme e ciclistica, i pesi, i giochi, le usure, etc posso rendere diverse delle moto apparentemente identiche. Cercate di cogliere nelle diversità la necessità di adattare stile e ritmo o potreste trovarvi con delle amare sorprese. Detta in altre parole, non è che se lo fa lui allora lo posso fare anch’io… lo posso fare anch’io, è vero, ma a determinate condizioni, questo non dimenticatelo nel vostro percorso di apprendimento.

Tutti possono risolvere il cubo, basta sapere come farlo. Qualcuno più talentuoso lo potrà fare più velocemente ma la sostanza non è quanto tempo ci metto per arrivare alla soluzione, la sostanza sta nel percorso che è obbligato ed univoco ed il cui apprendimento contiene la gran parte del divertimento.

Non perdetevelo.

Buona strada. T.

Ringraziamo il nostro amico Tato (Levrieronero) per averci concesso la pubblicazione del suo articolo.

La pista è di tutti!

Vengo anch’io, no tu no!

Chi di voi ricorda questo simpatico motivetto? Ma soprattutto, che c’entra con un articolo che dovrebbe trattare di moto e, nel dettaglio, di moto in pista? C’entra perché vorrei trattare questo argomento da un punto di vista diverso, che poi è quello che a noi di SafeRiders sta più a cuore: l’approccio ad una nuova esperienza muovendo i primi passi nella giusta direzione.

Ma la canzoncina direte voi? Un attimo, ora ci arrivo. Probabilmente, anche se non ve ne siete accorti, è il motivetto che dentro di voi è risuonato ogni volta che avete pensato di provare la pista.  E’ successo a livello inconscio e senza accorgervene vi siete detti “no tu no”! Anche se poi si è palesato in altre forme che dovrebbero aver risuonato più o meno cosi: mi piacerebbe ma…“non ho la moto adatta”,  “non ho le gomme in mescola”, “non sono in grado”,“ costa troppo“. Questo, sommato alla giustissima e doverosa paura della prima volta, ha portato sicuramente molti di voi a desistere e, lasciatemelo dire, è un vero peccato.

Proviamo allora a sfatare falsi miti e credenze da bar dello sport analizzando le problematiche più ricorrenti.

non serve una race-replica per girare in pista“Non ho la moto adatta”. 

Falso, non esiste una tipologia di moto adatta alla pista ma contrariamente ne esistono alcune adatte solo alla pista. Possederne già una al nostro primo tentativo, risulterebbe più o meno come voler possedere un telescopio astronomico per rivolgere un  fugace sguardo alle stelle.  La moto che abbiamo, purché sia progettata per un uso stradale (intendo su asfalto) va benissimo. Esistono invece situazioni inadatte, quelle in cui il nostro livello di esperienza o la nostra moto non vanno bene per niente. Ad esempio, se foste sul predellino di un’imbarcazione pronti a tuffarvi per la vostra prima immersione, vorreste che sotto di voi ci fosse la fossa delle Marianne? Penso proprio di no, quindi evitiamo di prenotare per il debutto una giornata di prove libere tra velocisti al Mugello magari solo perché ci va un amico.  Esistono giornate adatte ai debuttanti, con turni riservati a chi inizia, spesso con apri pista messi a disposizione dell’organizzatore.  Altro ottimo metodo è la suddivisione in tempi sul giro, grazie alla quale si accede al circuito in gruppi omogenei per capacità e velocità.

“Non ho le gomme in mescola”. 

Tranquilli non vi servono ancora. Occorre solo presentarsi con un treno di gomme almeno a tre quarti della loro aspettativa di vita. Poiché per quanto la vostra autostima inizi a crescere non appena mettete piede all’interno del circuito, il limite di tenuta delle vostre coperture è ancora lontano dalle vostre capacità. E se tra di voi ci fosse, e ve lo auguro, un talento nascosto? State certi che le vostre gomme non vi abbandoneranno lo stesso. L’unica cosa che le differenzia dalle loro sorelle specifiche è la capacità di sostenere molti giri a ritmi e temperature elevatissime prima di iniziare a cedere grip, ma non è ancora il nostro caso.

 “Non sono in grado”. 

Conservare il giusto timore reverenziale fa sempre bene, ma non deve esserci di ostacolo.  L’ambiente nel quale questa nuova esperienza prende forma è importantissimo. Gettarsi d’istinto nella situazione sbagliata spesso finisce solo per restituirci un’idea distorta di ciò che abbiamo vissuto ed ecco che quella vocina interna torna a dirci cose tipo “non fa per me”. Potrebbe sembrare banale detto da noi, ma iniziare con un corso di guida in pista è ovviamente la scelta più adatta.  Affidarsi a un amico può andar bene se riconosciamo in lui capacità e competenze necessarie. Il fatto che lui vada forte non è abbastanza.

“Costa troppo”. 

Vorrei potervi dire il contrario, come vorrei anche che le piste fossero parchi giochi gratuiti per bambinoni cresciuti, ma ahimè la pista ha i suoi costi. Diciamo solo che se fa parte delle nostre priorità troveremo di sicuro il modo come facciamo per lo specchietto, il casco, la marmitta, il giubbotto…ok mi fermo! D’altronde esiste un modo a voi conosciuto per ostacolare i desideri di un motociclista? Se lo trovate, vi prego ditemelo!

E il nostro orrendo motivetto? Già non lo sentite più? Bene, allora ci vediamo in pista! Vi aspetto.

Ah dimenticavo, dovesse accadere anche a voi di contrarre quel virus che io chiamo “pistite”, non me ne abbiate a male, è un virus che si propaga a fin di bene. L’unico modo conosciuto per contrastarlo è abbassare la visiera, percorrere la corsia dei box ascoltando il rumore del motore che sale allo stesso ritmo dei tuoi battiti. Poi arrivi a quella linea bianca che si assottiglia portandoti dentro il circuito, è l’ultima volta che ti volterai indietro. Da quel momento in poi andrai solo avanti correndo incontro alle tue emozioni.